L’impianto normativo attivabile oggi in tema di sottrazione internazionale di minori è rappresentato da un particolare “mosaico giuridico” composto da fonti internazionali e fonti comunitarie. Sulle basi giuridiche poste dalla Convenzione dell’Aja del 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori nasce, in un’ottica di potenziamento e modifica, il Regolamento europeo n. 2201/2003 (cd. Bruxelles II bis) sulla competenza, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e responsabilità genitoriale.

Sebbene le due fonti normative presentino aspetti di notevole diversità, ascrivibili sicuramente al differente campo di applicazione geografica di una fonte internazionale ed una europea e alla differenza pratica riscontrabile nel meccanismo attivabile in caso di sottrazione, un aspetto che le accomuna e ne rende possibile un’armonizzazione esiste: il concetto di “best interest of the child”. Il principio rappresenta, in materia, la finalità e la ratio stessa della normativa applicabile alle controversie transfrontaliere che vedano coinvolti i minori. Il concetto di superiore interesse del minore trova la sua massima espressione, sia nell’ottica della Convenzione che in quella del Regolamento, nel ritorno del minore verso lo Stato di residenza abituale precedente rispetto all’evento sottrattivo.

Un problema di non poco conto è rappresentato dal fatto che né la Convenzione né il Regolamento  definiscono il concetto di residenza abituale. La giurisprudenza italiana ha avuto modo di pronunciarsi sul tema, sottolineando che per “residenza abituale del minore” debba intendersi “il luogo in cui il minorenne – per qualsiasi motivo e, normalmente, grazie ad una durevole e stabile permanenza, ancorché di fatto – trova e riconosce il baricentro dei suoi legami affettivi, non solo parentali, originati dallo svolgersi della sua quotidiana vita di relazione” (Cass., 15 febbraio 2008, n. 3798).

Secondo quanto disposto dalla Convenzione dell’Aja, l’autorità giurisdizionale dello Stato verso il quale il minore è stato illecitamente trasferito (c.d. Stato di rifugio) ha l’obbligo, in assenza delle poche e restrittivamente interpretate eccezioni al rientro del minore, di ordinarne l’immediato ritorno verso lo Stato di precedente residenza abituale (art. 12); nell’impianto del Regolamento Bruxelles II bis l’autorità dello Stato di precedente residenza abituale del minore ha il potere di imporre il ritorno del minore anche a seguito un provvedimento di senso contrario adottato dal giudice dello Stato di rifugio (art. 11 par. 8). Lo Stato di precedente residenza abituale viene, dunque, considerato aprioristicamente, in entrambi i casi, come il luogo in cui il minore debba sempre far ritorno e continuare a vivere, lontano dal genitore “rapitore”.

Ma il ritorno del minore nello Stato di precedente residenza abituale è davvero sempre la soluzione più adeguata alla tutela del suo “best interest”?

La Corte di Cassazione in una recente pronuncia  (Sent. N. 2044/18) si è espressa in senso contrario. La fattispecie nasceva da una sottrazione internazionale di due minori, figli di madre italiana e padre ungherese. La madre, per il comportamento violento del padre, decideva di allontanarsi dall’Ungheria (luogo in cui la famiglia da sempre viveva) e di portare con sé i figli in Italia. Il padre adiva il Tribunale per i minorenni di Venezia affinché, sulla base del dettato dell’art. 12 della Convenzione dell’Aja del 1980, ordinasse il ritorno dei minori in Ungheria. Il Tribunale per i minorenni riscontrava “la ricorrenza della sottrazione internazionale di minori, ma [riteneva] che il rientro in Ungheria dei figli della coppia li [avrebbe esposti] al rischio di pericoli fisici e psichici”, rigettando l’istanza di rientro immediato proposta dal padre. 

Il padre proponeva ricorso per Cassazione, lamentando la violazione o falsa applicazione della Convenzione dell’Aja del 1980. La Suprema Corte rigettava il ricorso e confermava la decisione del Tribunale per i minorenni di Venezia: il ritorno dei minori in Ungheria li avrebbe esposti a pericoli fisici e psichici non trascurabili.

La Corte di Cassazione sembra aver seguito l’indirizzo giurisprudenziale inaugurato dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel 2010 a seguito della vicenda Neulinger.

Il caso Neulinger, nascente da una fattispecie molto simile rispetto a quella sottoposta al vaglio della Cassazione, ha rappresentato lo spartiacque tra due letture diverse del “best interest” del fanciullo, una rottura totale rispetto ad un atteggiamento interpretativo legato ad una meccanica applicazione della Convenzione dell’Aja e quindi fondato sull’automatica convinzione che solo il ritorno del minore nel luogo di residenza abituale potesse corrispondere al suo interesse superiore.

Detta impostazione portava a considerare le decisioni dei Tribunali nazionali conformi al dettato dell’art. 12 della Convenzione come sempre conformi al superiore interesse del minore. Dopo il caso Neulinger, il concetto di “best interest” è mutato: la sentenza della Grande Camera ha determinato il passaggio da un approccio basato su una «prevenzione generale ad astratta» e fondato sulla convinzione che la Convenzione dell’Aja fosse idonea a garantire di per sé l’interesse del minore, alla valorizzazione del principio del superiore interesse del minore, calato nella dimensione concreta del singolo caso di specie ed indipendentemente dalla sua conformità alla Convenzione dell’Aja.

L’approccio “post-Neulinger”ha determinato nelle giurisprudenze internazionali ed europee decisioni non stereotipate in quanto non più meccanicamente legate ad una puntuale applicazione dello strumento convenzionale, ma più aderenti ad un’analisi case by case.

La sentenza della Cassazione in commento mostra come un approccio di questo tipo permetta di considerare corrispondente al superiore interesse del minore anche una decisione di non ritorno del minore, a cui viene permesso di vivere nello Stato di rifugio, insieme al genitore “rapitore”.

Daniele Vignali